Aggiornato al 27 Luglio 2024

Domenica, “Giornata mondiale della poesia”, nel giorno del 90º compleanno l’omaggio della figlia ad Alda Merini

Avrebbe compiuto 90 anni proprio domenica 21 marzo, “Giornata mondiale della poesia”. E chi più di Alda Merini può rappresentarla sotto ogni forma e declinazione? In occasione della ricorrenza Emanuela Carniti, figlia della grande scrittrice e artista, grazie a Manni online proporrà il libro “Alda Merini, mia madre”, pubblicato nel 2019. A dialogare con lei, domenica 21 a partire dalle 18, ci sarà Emilio Fabio Torsello, mentre le letture saranno affidate a Mara Sabia. Per assistere all’evento sarà necessario collegarsi al link https://go.skymeeting.net/live/mannieditori/aldamerini. Nel frattempo abbiamo fatto una chiacchierata con Emanuela Carniti per scoprire con lei chi era la grande poetessa…

Che cosa significava la poesia per sua madre?

«Alda Merini lo diceva, lo scriveva: per lei la poesia rappresentava la sua vera vocazione, a parte l’amore per i figli. La poesia era qualcosa che le arrivata dal di fuori, era una chiamata a cui doveva convergere. In alcuni lavori aveva scritto “poesia non saltarmi addosso”. Era qualcosa al di fuori della sua volontà. La permeava da dentro, come se non avesse avuto un potere contrattuale. Doveva accettarla. Era molto innamorata della sua poesia. Ha sempre avuto, fin da giovane, la consapevolezza che scriveva cose meravigliose. A 17 anni, già accolta bene dalla critica, era entrata nell’antologia dei poeti. Conobbe diversi personaggi noti, come ad esempio Quasimodo, Manganelli e Rebora…». 

Per lei invece cos’è la poesia?

«Per quanto mi riguarda ho pubblicato un libro di poesie qualche anno fa, spinta da una delle mie sorelle e dal mio compagno di allora. Ho avuto sempre a che fare con l’ambiente avendo una madre che viveva di poesia: le recitava, le scriveva. In casa si respirava quell’aria e per me scrivere un libro è stato un modo di esternare alcune emozioni che magari fatico a esprimere diversamente. La modalità imparata è un po’ quella. Non mi ritengo poetessa né tanto meno scrittrice. Forse perché non sento l’esigenza di scrivere. Non è una questione fondamentale come lo era per mia madre. Forse ne ho fatto indigestione…».

Nel 2019 lei ha pubblicato il libro “Alda Merini, mia madre”. E’ stato un atto d’amore o un bisogno di raccontarla?

«Io mia madre l’avevo già raccontata. Dopo la sua morte ci sono stati eventi di tutti i tipi, intitolazioni, ricordi e qualsiasi altra cosa. Il libro non è partito da me, ma è stato uno dei suoi editori a propormelo nel decimo anniversario della morte. Forse se fosse dipeso da me non l’avrei scritto, non avevo bisogno di raccontarla, né di raccontarmi. Invece, poi, raccontarla per l’ennesima volta mi ha aiutato a fare chiarezza su tante cose stravolte, su fatti raccontati in modo contraddittorio ed eventi che l’hanno mitizzata. Mia madre aveva una passione particolare nel raccontare certi episodi, era un’affabulatrice pazzesca; non ricordava bene gli eventi così li modificava di volta in volta. Tante cose non le so io come non le sapevano nemmeno gli amici più intimi. Ecco perché è nata la biografia su Alda Merini: per fare un po’ d’ordine in questo magma di notizie».

Ha sempre mantenuto i rapporti con sua madre?

«Ci sentivamo e frequentavamo sempre. I primi tempi che ero a Omegna, nei primi anni ’70, veniva a trovarmi con il mio papà. Dopo lui si è ammalato, poi è morto e lei si è trasferita a Taranto. Successivamente andavamo noi a Milano, dove vi era tornata con il secondo marito, il chirurgo e poeta Michele Pierri». 

Cosa ne pensava del lago d’Orta? 

«Le piaceva, era contenta tutto sommato di dove fossi finita. Oramai mi sento una di qua, sono a Omegna da 50 anni. Sono arrivata sul lago per una serie di eventi, poi ci sono rimasta».

Il libro dedicato a sua madre in qualche modo le è stato d’aiuto?

«Mi è servito e non solo per riordinare le vicende di Alda Merini. Per scriverlo ho dovuto ripercorrere dentro me stessa dei passaggi, che già conoscevo, e darli in pasto al pubblico. Tutto ciò mi ha fatto fare il punto e ha chiuso un cerchio della mia vita, dove ho preso le distanze dalla poetessa, dal mito, ma come madre ovviamente rimarrà per sempre dentro me».

Cosa significa essere figlia della poetessa Merini?

«Credo che si provi ciò che provano tutti i figli dei personaggi famosi: è una gatta da pelare. Dentro di te sei orgogliosa, certe cose molto forti che ho vissuto e che vivo me le ha trasmesse lei. A livello materno, purtroppo, si è avvertita molto la sua assenza, forse di più da parte delle mie sorelle. La sua vita è stata occupata principalmente dalla poesia e dai problemi psicologici che l’hanno minata dentro. Oggi provo fastidio quando la gente scopre chi sono e di conseguenza cambia atteggiamento. Dunque non lo dico mai chi era mia madre. Certo, provo un grande orgoglio, soprattutto sono fiera di lei per le cose che è riuscita a scrivere e a trasmettere, specie ai giovani, che l’hanno amata tanto e ancora la amano. Alda Merini è sui testi scolastici già da anni, ancora prima di morire. La poesia, come tutta l’arte, è qualcosa da tramandare e da tenere viva, specie in un periodo e in una società obbrobriosa come quella che stiamo attraversando».

Se oggi Alda Merini fosse stata ancora qui, cosa avrebbe pensato dei poeti e degli scrittori contemporanei?

«Ce n’erano alcuni che apprezzava, finché è stata in vita. C’è da dire, però, che era molto critica come persona, non so se le sarebbero piaciuti quelli più contemporanei. Diceva di essere il primo poeta d’Italia. Non so se si sbagliava di molto, visto che la sua popolarità cresce di anno in anno… Era un animale da palcoscenico, avrebbe potuto fare teatro. Era capace di interagire con i vari personaggi con cui si trovava ad avere a che fare. Era molto affascinata dal teatro e dal cinema, così come dalla musica, che amava molto, anche grazie al pianoforte che suonava».

La signora Merini è morta nel 2009: lei pensa che oggi, in questa società, si sarebbe in qualche modo riconosciuta e avrebbe continuato a scrivere poesie?

«Credo che mia madre non si sarebbe piegata a nessuna di queste cose che stanno accadendo nel mondo d’oggi. Non avrebbe accettato imposizioni, anzi avrebbe fatto opposizione e avrebbe continuato a scrivere. Avrebbe fatto sentire la propria voce anche davanti a questa pandemia. Lei voleva essere ricordata come la poetessa della gioia e questo clima non lo avrebbe retto a lungo. Sarebbe stato un bene se ci fosse stata ancora per farsi sentire e per portare un po’ di ottimismo».

Per l’8 marzo aveva dato alla luce il componimento “Sorridi donna”, un inno alla vita ma soprattutto a volersi bene. Cosa ne pensa?

«La penso proprio così: quella poesia è un inno alla vita. Ha scritto altre cose belle sulle donne. Il compositore Giovanni Nuti ha musicato molte delle sue poesie. Mia madre suonava il pianoforte, amava la musica, le piacevano Dalla, Gaber, amava il Celentano dei primissimi anni. Così come gli autori classici. Quando era felice suonava, qualche volta lo faceva anche per noi figli. Suonava delle piccole cose per bambini».

Lei è specializzata in psichiatria e ha scelto di lavorare nel Servizio di igiene mentale. Sua madre, nella vita, è passata dalla dolorosa esperienza dei manicomi, che però le hanno aperto un mondo ricco di riconoscimenti e poesie meravigliose. Da parte sua è stato un atto dovuto? Un volere aiutare chi come sua madre è passato da quel percorso doloroso?

«Era un atto dovuto contro qualcosa che io ho vissuto come una grossa ingiustizia nei suoi confronti. A 11 anni andavo a trovala all’ospedale psichiatrico. Un posto orribile, dove soffriva molto. E’ stato naturale per me cercare di approfondire la questione, fare qualcosa. Ho potuto farlo grazie alla legge Basaglia, che ha previsto la chiusura dei manicomi. Sono stati anni faticosi, ma anche molto belli e importanti, che mi hanno dato tanto».

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