Aggiornato al 6 Ottobre 2024

Plasma iperimmune, ecco cosa c’è da sapere. Ne parla Leonardo Ruscitto, primario del Simt del Vco

Il plasma iperimmune, ricco di anticorpi contro il Covid, sembra rappresentare una delle poche armi a disposizione per la cura dei malati Covid nelle forme più gravi. Questo in attesa dell’approvazione da parte dell’Ema degli anticorpi monoclonali, che potrebbero diventare la cura “universale” contro il Coronavirus. Abbiamo intervistato il dottor Leonardo Ruscitto, responsabile del Simt (Servizio immunoematologia e medicina trasfusionale) del Vco, per capire come va la donazione e che utilizzo viene fatto del plasma iperimmune. 

Dottor Ruscitto come sta andando la donazione di plasma iperimmune? 

«La raccolta continua e c’è stata una buona adesione. Sono tanti i donatori e i pazienti che sono venuti qui per fare il test di dosaggio degli anticorpi. Purtroppo non tutti sono idonei a donare: alla fine gli idonei sono il 30% circa di quelli che si propongono. Il territorio però dimostra grande sensibilità e molti di quelli che si sono proposti per donare il plasma si sono poi iscritti ad un’associazione di donatori sangue». 

Quanti sono i pazienti trattati nel Vco con plasma iperimmune? 

«Una decina di pazienti, con risposte incoraggianti in tutti e tre i presidi. Purtroppo oggi per il Covid non c’è ancora una terapia universale e si cerca di fare ognuno la propria parte. In questa fase anche il plasma è una buona alternativa terapeutica. Con i medici clinici stiamo allestendo un nuovo protocollo per anticipare l’utilizzo del plasma nelle prime fasi della malattia: le persone con complicanze vanno trattate con plasma nelle prime 72 ore».

Cosa dicono gli studi sull’efficacia del plasma iperimmune? Alcuni recenti hanno messo in dubbio la sua efficacia…

«Sì, alcuni studi americani hanno dimostrato che il plasma iperimmune è efficace solo nelle fasi precoci della malattia. In Italia il plasma è stato autorizzato per studi sperimentali o per uso compassionevole. Noi stiamo aspettando gli esiti degli studi fatto in Piemonte a cui hanno partecipato la maggior parte dei centri trasfusionali piemontesi, e dello studio dell’università di Pisa. La difficoltà maggiore è “standardizzare” il prodotto, che può variare molto ovviamente a seconda del donatore». 

Il professor Roberto Burioni ha lanciato l’idea di far donare chi è stato vaccinato con il vaccino Pfizer. Potrebbe funzionare? 

«Difficile dirlo. Bisogna aspettare l’esito di questi studi per capire se effettivamente conviene usare il plasma iperimmune o puntare sugli anticorpi monoclonali».

Per essere più efficace il plasma donato deve avere un’alta quantità di anticorpi? 

«Sì ma non è importante solo il “titolo anticorpale”, che per chi è vaccinato è elevatissimo, ma devono essere anche “anticorpi neutralizzanti”, in grado cioè di creare una difesa solida. Per capire l’efficacia e l’importanza del valore del titolo anticorpale abbiamo anche fatto fare un test a Pavia su un donatore che aveva un valore intorno a 100, piuttosto elevato, per capire anche i suoi anticorpi neutralizzanti. Purtroppo Pavia è l’unico laboratorio ad effettuare quel test». 

Quindi un conto è il titolo anticorpale, altro gli anticorpi neutralizzanti. Un po’ come dire non conta solo la quantità ma anche la qualità degli anticorpi? 

«Semplificando al massimo sì». 

Gli anticorpi che i guariti dal Covid hanno, diminuiscono col tempo? 

«Non sempre: abbiamo avuto casi di persone che hanno anzi aumentato la quantità di anticorpi». 

La quantità di anticorpi dipende dalla gravità della malattia che uno ha fatto? 

«No, nel modo più assoluto. Abbiamo donatori che hanno fatto il Covid da asintomatici con valori elevati di anticorpi e altri finiti in Terapia intensiva che dopo un mese hanno valori bassissimi». 

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